di Stefano Andi, architetto
In un precedente articolo (Artemedica n.38, estate 2015) avevamo annunciato l’intenzione di commentare il contributo che l’Expo 2015 di Milano, ora conclusa, avrebbe dato non tanto rispetto al tema centrale a cui era dedicata la manifestazione – l’alimentazione e le attività agricole ad essa collegate – quanto nel campo delle proposte di tipo architettonico ed edilizio che con quelle attività sono connesse, contribuendo con esse a configurare il paesaggio agrario extraurbano, delle campagne, dell’intero territorio. Il tema del ricupero o addirittura il rinnovamento del paesaggio agrario, non solo dal punto di vista estetico, è anch’esso di grande attualità soprattutto nei paesi civilizzati come l’Italia e dove le attività antropiche hanno modificato radicalmente e spesso sconvolto gli antichi equilibri. L’attività edilizia al servizio dei bisogni abitativi, lavorativi, di sviluppo e di gestione delle risorse naturali e delle coltivazioni agricole non è meno importante di queste, nel creare con le sue forme architettoniche un ambiente che sia organico con le dirette attività e armonico con le forme naturali.
Da questo punto di vista un’esposizione internazionale dedicata all’alimentazione e all’agricoltura, con tutte le sue branche di attività e di produzione, dovrebbe raccogliere anche le proposte e le iniziative legate alla formazione del paesaggio in senso lato e dell’edilizia rurale, dell’architettura dei manufatti agricoli in particolare. In questa direzione infatti si è potuto portare l’attenzione sul problema della configurazione del paesaggio agrario italiano, per esempio, nell’ambito di un convegno, svoltosi il 29 settembre 2015, dal titolo “La buona scuola del bio. Il contributo della bioagricoltura all’istruzione e alla formazione professionale”, ospitato nell’area della Biodiversità all’interno del programma fieristico dell’Expo.

In questa occasione l’intervento dello scrivente, che aveva come tema “Architettura scolastica per aule orti e giardini”, in realtà ha potuto allargarsi ad abbracciare non solo il tema delle nuove architetture per l’agricoltura, ma soprattutto il problema d’attualità del riutilizzo delle vecchie strutture edilizie agricole dismesse e quindi del loro reinserimento in un nuovo concetto di paesaggio agrario in chiave didattico-educativa e assistenziale. Data la complessità del tema, potremo riferire di questa proposta e dei suoi risvolti sia in campo agricolo che pedagogico solo in un successivo contributo su questa Rivista.
Tornando alla tematica a cui ci siamo riferiti in apertura, quella della qualità delle proposte architettoniche dei padiglioni dell’Expo, in funzione dello sviluppo di una sensibilità verso le esigenze e gli obiettivi di una nuova alimentazione, di una nuova agricoltura e, come detto, di un nuovo paesaggio agrario, è possibile fare ora un bilancio di quanto è stato mostrato nell’areale espositivo.
È vero che un padiglione fieristico deve soddisfare e adattarsi a esigenze particolari in fatto di spazio a disposizione, di costi contenuti, di eventuale ricupero e riciclaggio delle sue strutture e dei suoi materiali; deve rispondere a criteri di pubblicità, di promozione e rappresentazione esteriore dei prodotti esposti, ma dovrebbe anche esprimere il carattere del Paese che rappresenta, degli orizzonti naturali e colturali che illustra, parlare con le sue forme del rapporto con la terra, con la natura, con i prodotti dell’agricoltura e del lavoro agricolo là svolto, infine con la popolazione del luogo e la sua cultura. Questo vale per un edificio comunque inteso che si collochi organicamente in un contesto territoriale ambientale economico e culturale specifico, ma anche per un manufatto edilizio provvisorio che lo voglia rappresentare autenticamente e degnamente in un contesto come quello dell’Expo.

Da questo punto di vista la valutazione delle architetture realizzate per l’edizione milanese è presto fatta e dà purtroppo dei risultati scoraggianti. Solo pochi padiglioni rispondono a questi parametri formali e ideali, ossia di essere organici al contenuto di quanto devono rappresentare. Alcuni, pochi, hanno scelto la via di riprodurre pedissequamente e banalmente forme tradizionali delle costruzioni del Paese in questione, per di più con materiali e tecniche non originali, artificiali e persino simulate (plastiche, imitazioni varie), realizzando un falso e una copia esteriore anacronistica di tipologie originali ben più vitali e motivate dalle condizioni là, del tempo e del luogo. Si tratta di padiglioni che finiscono per risultare esempi di kitsch e di cattivo gusto se non addirittura ahimè volgari: Nepal, Oman, Sudan, Qatar, Romania, e altri.
La maggior parte ha seguito la via dell’immagine tecnologica e razionalista, astratta e omologata sui modelli dell’attuale edilizia moderna, quanto mai lontana da un rapporto organico con i contenuti e priva di valori vivi. Pensiamo in particolare al padiglione della Gran Bretagna che incredibilmente è stato eletto migliore edificio dell’Expo da parte di una giuria “qualificata”: un trionfo della tecnologia industriale, informatica e cibernetica, per allestire un luogo virtuale meccanizzato e illusionistico: l’esatto opposto di quanto ci si poteva onestamente aspettare.

Ma anche il padiglione Italia, così esaltato dai nostri media, non è che un grande meccanismo in acciaio e cemento (l’aggettivo “biodinamico” usato per questo materiale, ha giocato su un furbo e deplorevole equivoco, trattandosi di un contesto specialistico, quello dell’alimentazione, dove era presente l’agricoltura biodinamica, quella vera), bisogna riconoscere comunque di un alto livello formale e costruttivo, aggiornato alle tendenze attuali: esteriormente una grossa scatola a reticolo che si squarcia e mostra le spaccature, internamente una sequenza di ambienti costituiti da pareti, pavimenti e soffitti a specchio e/o da grandi schermi luminosi integrali a led in continuo mutamento di immagini. Un’esperienza totalmente destabilizzante e alienante, illusionistica e artificiale, del tutto estranea ai caratteri del nostro Paese e del tema in oggetto.
Alcuni altri hanno espresso valori estetici di un certo spessore, dovuto al talento inventivo dei progettisti e alla cultura dei committenti, ma comunque quasi sempre sganciato dal tema agricolo o alimentare o paesaggistico del loro paese. Possiamo in questo senso annoverare e apprezzare, con riserva appunto, i padiglioni della Francia (solo l’interno), del Giappone, Kuwait, dalla Santa Sede, della Slovenia, del Brasile, dell’Alitalia, di Intesa San Paolo, della azienda Vanke, il Padiglione Zero.
Solo pochissimi hanno invece saputo centrare entrambi gli obiettivi, quello di esprimere un nesso organico con l’ambiente naturale, agrario, etnico dei vari orizzonti territoriali ed essere al contempo anche un esempio di qualità artistica architettonica.
Vogliamo segnalare per questo i padiglioni della Cina, degli Emirati Arabi Uniti, della Germania, e poco altro (apprezzabili nella loro colta semplicità i fabbricati modulari dei servizi generali). Onesti e modesti, purtroppo, infine, i padiglioni che volevano rappresentare il nuovo, l’impulso verso un’agricoltura ecologica e sostenibile, di tipo etico e sociale: quello della Biodiversità (con un eccellente sistemazione esterna a verde dei 5 orizzonti agrari italiani dalla Sicilia alle Alpi e un anonimo e deludente allestimento interno delle offerte del biodinamico e del biologico); e quello di Slow Food (tradizionale, conservativo, ma in forme eleganti).

Al termine di ogni Expo il dibattito è acceso sul senso di queste manifestazioni oggi e sul destino dei terreni occupati dall’iniziativa e degli edifici temporanei lì innalzati. Milano non è sfuggita a queste giustificate problematiche. Noi siamo fra quelli che non trovano più molto senso in una kermesse di questo tipo, non solo e non tanto per i capitali economici riversati in realizzazioni effimere e superficiali, quanto per il carattere di sbornia sensoriale, di illusione emozionale e di inganno intellettuale che l’insieme ha manifestato e indotto nel pubblico. Il trionfo delle plastiche (il 70% delle presenze vegetali e alimentari era artificiale, finto), delle forme meccaniche e macchinistiche, la virtualità e illusionarietà delle esperienze che si potevano fare hanno purtroppo ben rappresentato il tratto prevalente dell’impostazione generale, caratterizzata dagli obiettivi dell’industria alimentare multinazionale, che spinge sempre più verso pratiche agricole ed alimentari e stili di vita innaturali e alienanti (OGM, sfruttamenti intensivi, consumi crescenti, sperequazioni, ecc.). La cultura architettonica e l’industria edilizia si sono messe ahimè al servizio di questi principi fuorvianti e disumanizzanti.
A prescindere dalle decisioni, infine, che verranno per il dopo Expo (già però è stata annunciata la conservazione, purtroppo, in situ della costruzione più pacchiana e volgare dell’intera Expo: il cosiddetto Albero della vita) circa l’utilizzo dei terreni liberati (ci sono almeno tre progetti alternativi), nel bilancio assai problematico dell’evento vanno inseriti però anche tratti positivi e meritevoli, che qui vogliamo menzionare e che hanno comunque giustificato per noi una visita accorta alla manifestazione.
Incontrare alcuni Paesi espositori che probabilmente mai si potranno visitare nella nostra vita (a noi è capitato per esempio con l’Iran, con la Thailandia, con i piccoli Paesi delle zone aride, l’Eritrea, la Somalia, ecc.), conversando con le gentili hostess o con i volonterosi addetti alla presentazione dei prodotti mostrati, e osservando i costumi, i materiali e i paesaggi riprodotti, è stata sicuramente un’esperienza appagante e significativa, che solo un evento di questo tipo può dare.
Tornando al tema architettonico, che è quello che più ci compete, nonostante la stragrande maggioranza delle prove negative e talvolta persino dannose che committenti e progettisti hanno fatto, anche in queste occasioni si ha modo di vivere dal vivo (non attraverso la mediazione addomesticata e falsata delle riviste, degli schermi internet, delle roboanti parole delle accademie e delle giurie dei premi e dei concorsi) il corpo dell’architettura con tutte le sue valenze sensibili e soprasensibili, come essa si rivolge e parla realmente all’uomo concreto. E infine, sperimentare, partecipare almeno una volta a un fenomeno del nostro tempo, per quanto problematico, contraddittorio e decadente, è comunque condividere il senso del nostro vivere oggi in un mondo che affronta il destino dell’evoluzione.
da ArteMedica n.40