La scuola steineriana messa alla prova

In questa intervista di Jens Heisterkamp, Rüdiger Iwan, ex insegnante di scuola steineriana, già nel 2007 pone l’accento sulla staticità del sistema delle scuole Waldorf, rigidamente ancorate a un mondo ormai lontano.

Come eco alle domande sollevate dal dibattito sugli studi PISA (Programme for International Student Assessment – Programma per la valutazione internazionale dell’allievo) spesso si sente dire da parte di esponenti della pedagogia steineriana: “noi le risposte le abbiamo già!”. Questo orgoglio è giustificato?
Questa è la sindrome della lepre e il riccio: io sono già qui. Di ciò mi ero già occupato in modo critico quando all’epoca venne detto dall’Associazione delle Scuole Steineriane: “Nelle scuole steineriane non viene bocciato nessuno”. Così mettiamo in pratica già da molto tempo ciò che adesso viene richiesto come conseguenza degli studi PISA, e io avevo scritto in un articolo per Info3. Il fatto che nelle scuole steineriane non viene praticata la bocciatura non è una conquista, è piuttosto una incoerenza, poiché per il resto ci si basa molto sui vecchi metodi della pedagogia della costrizione, come dimostrano, ad esempio, l’interrogazione alla fine di un’epoca, i compiti in classe, l’assegnazione di compiti a casa – quindi tutto il paradigma indiscusso del controllo tradizionale delle prestazioni del XIX secolo.
In questo controllo classico dell’apprendimento continua a vivere la rigida educazione prussiana proprio come nella bocciatura, e Steiner era molto più coerente perché rifiutava entrambe le cose.

Proprio nell’indagine fra ex-alunni della scuola steineriana condotta da Randoll e Barz, che è stata appena pubblicata, alcuni alunni hanno asserito che la scuola steineriana è troppo fiacca, specialmente nell’insegnamento delle lingue e delle scienze. Come si arriva a dei risultati soddisfacenti senza esercitare pressione? Alla fine gli alunni stessi sono frustrati se, ad esempio, dopo dieci anni di insegnamento non sono ancora in grado di dialogare in inglese.
Ovviamente anche a me interessa un innalzamento della qualità dei risultati, ma questo dovrebbe passare attraverso la scoperta del processo di apprendimento stesso. I compiti a casa e le interrogazioni severe paralizzano il vero processo di apprendimento. L’esercizio è senz’altro l’elemento centrale che porta al saper fare, ma si tratta di trovare i metodi giusti. Il motivo profondo, secondo me, sta nel fatto che nella scuola media steineriana, quindi alla fine della fase dell’imitazione, abbiamo una grossa mancanza di struttura dove in realtà bisognerebbe applicare delle forme moderne di esercizio.
Le lingue straniere non fanno parte della mia competenza di maestro, ma ciò che qui viene visto come un problema è uguale a molte altre “sindromi da cucchiaio da cucina” della pedagogia steineriana che tratto nel mio libro.

Questa frase chiave “principio del cucchiaio da cucina” ha un ruolo fondamentale nel suo libro. Ce la può spiegare?
Il pedagogo steineriano Christoph Wiechert mi ha portato all’elaborazione di questo pensiero: il leggendario cucchiaio da cucina realizzato durante le lezioni di lavori manuali nella scuola steineriana è nato piuttosto per caso da una situazione, quando durante una conferenza della prima scuola Waldorf a Steiner venne domandato se non si potesse ottenere il contatto con la pratica desiderato per gli allievi facendo intagliare loro un cucchiaio da cucina. Certo, rispose Steiner, lo si potrebbe fare ogni tanto.
Ma questo cucchiaio da cucina fino ad oggi lo devono intagliare tutti gli allievi di tutte le scuole steineriane del mondo, in modo completamente scollegato da quelle motivazioni profonde e dalla situazione temporale cambiata.
Un simbolo per indicare quanto si siano fossilizzate le vecchie posizioni ideologiche. E io critico proprio queste forme fossilizzate.

Potrebbe farci un esempio?
Il principio delle “epoche”. Notoriamente nella scuola steineriana molte materie non vengono distribuite nell’anno in lezioni settimanali, ma vengono organizzate in ore doppie quotidiane per tre o quattro settimane. Dietro questo principio delle epoche originariamente si nasconde l’approccio a non voler strutturare l’insegnamento per la comodità degli adulti ma a partire dai bisogni dei bambini stessi.
L’insegnamento ad epoche, infatti, significa che per ogni specifica età si trovi ciò che il bambino vorrebbe rielaborare e con cui si vorrebbe confrontare. L’epoca significa far diventare qualcosa un’epoca della vita, un tema della vita per il bambino, perché si adatta proprio allo sviluppo del bambino e lui stesso vuole occuparsi di ciò. Se posso aggiungerlo, quando un bambino può vivere al di fuori ciò che proviene da un profondo strato del suo essere, vengono liberate delle forze inaspettate. Quindi il principio significa in sé: un’educazione che principia dal bambino.
Inoltre questo richiede di organizzare le circostanze ambientali in modo che ciascuno possa effettivamente trovare il suo argomento e possa renderlo libero: l’ambiente di studio e soprattutto l’organizzazione delle ore di studio nella scuola. E questo aspetto non è mai stato realmente realizzato. Non siamo mai riusciti ad andare oltre la trafila di epoche di tre o quattro settimane accanto alle ore delle altre materie. In realtà però il principio delle epoche è un principio rivoluzionario che esige un cambiamento dell’istituzione in tutte le strutture già esistenti. La domanda è: come possiamo organizzare il tempo e gli spazi nella scuola affinché il bambino possa trovare la sua epoca e vivere il suo tema?
Se oggi dovessimo cercare un esempio pratico a questo riguardo, purtroppo lo troveremmo molto più in una scuola montessoriana che in una steineriana.

Non si tratta anche di un problema dovuto alla dimensione delle scuole? Come potrebbe funzionare questa individualizzazione nel caso di collegi composti da 50 o 80 insegnanti e da 500 fino a 900 alunni?
Lo dirò in modo radicale: non ha senso insegnare a scuola la geometria proiettiva, attraverso la quale vogliamo ampliare le usuali prospettive spazio-temporali, se non riusciamo a superare noi stessi le prospettive spazio-temporali dell’orario scolastico convenzionale. Nel mio libro ho fatto l’esempio di una scuola secondaria a Tübingen, dove hanno trovato il modo di eliminare, un passo alla volta, il vecchio orario e sono arrivati a una nuova forma di organizzazione dell’insegnamento. Un presupposto perché ciò possa essere messo in atto è il lavoro di squadra, quindi che tutti gli insegnanti coinvolti in una classe pianifichino insieme l’anno scolastico.
Ma nelle scuole steineriane la tendenza alla collaborazione è estremamente minima e in pratica adottiamo la convenzionale separazione degli insegnamenti secondo il principio dell’insegnante per ogni materia.

La pedagogia steineriana però non viene applicata su isole dove si possono effettuare esperimenti scollegati dal contesto generale. Prima o poi arrivano anche gli esami, nei confronti dei quali bisogna orientarsi: cosa si può fare senza un insegnamento delle materie regolare?

Questo è il nodo centrale del problema: la scusa più grande per evitare ogni innovazione è l’esame di maturità. E per me questa scusa non vale proprio più. Certo abbiamo le direttive dei curricula in matematica, storia, fisica, inglese ecc. Ma anche e soprattutto qui, dove si tratta di economizzare il carico eccessivo di lavoro degli alunni, si potrebbero ottenere dei veri effetti di sinergia attraverso una vera collaborazione relativa al contenuto degli insegnanti.
Perché la storia deve essere insegnata dall’insegnante di storia, poi di nuovo dall’insegnante di storia dell’arte, poi ancora dall’insegnante di musica? Potremmo, ad esempio, trattare l’espressionismo dopo la prima guerra mondiale in modo che comprenda più materie, per mostrare quale atmosfera di rinnovamento regnasse in ogni ambito.
L’impulso iniziale di Steiner era quello di superare la rigida suddivisione secondo l’orario scolastico; lui addirittura parla dell’orario scolastico come della tomba della pedagogia. Ma già nel 1922, come è stato possibile ricostruire grazie ai protocolli delle conferenze con Steiner, il pensiero secondo l’ideologia dell’orario scolastico aveva invaso la scuola steineriana!

Dipende forse anche dal fatto che gli alunni delle scuole steineriane sono sovraccaricati dalla quantità delle materie di studio?
Naturalmente, noi esageriamo nelle quantità e sovraccarichiamo gli allievi, scarichiamo su di loro la nostra tendenza all’insegnamento secondo il motto: a loro servono tutte queste cose buone. Già Steiner nel 1922 si trovò di fronte a questo fenomeno! Troppe materie, l’una dietro l’altra, troppo insegnamento. Questo blocca, e così in realtà non si impara nulla. Steiner all’epoca diceva di essere sconvolto da quanto poco sapessero realmente gli allievi, nonostante (oppure proprio perché) seguissero in parte oltre 40 ore di lezione settimanali – il programma per il raggiungimento della felicità assoluta secondo i pedagoghi idealisti.
Qui anche la parola chiave dell’“autorità amata” dell’insegnante ha un effetto catastrofico. La domanda fondamentale dovrebbe suonare così: come posso attivare i bambini e gli adolescenti perché si mettano in movimento partendo dalle loro capacità?
In altre parole, io capisco l’allievo della scuola media che da noi fa il ribelle segnalandoci, in modo rumoroso o silenzioso: non sono pronto a stare seduto con 40 persone in classe e ricevere quotidianamente qualcosa di propinato e magari essere anche interrogato una o due volte, io voglio elaborare qualcosa insieme ai miei compagni, voglio conoscerli anche nel loro modo di imparare, non solo nel cortile della scuola.

Si tratta quindi di lasciare più libera la lezione? Ma allora viene messa in discussione anche l’istituzione “scuola” come noi la conosciamo.

Dobbiamo in ogni caso prendere radicalmente in considerazione i punti ciechi e i tabù di questa istituzione. Qui penso ai colleghi, senz’altro benintenzionati, che in una conferenza interpretano la loro classe come comunità di destino. Oggi direi che a questo concetto dobbiamo almeno contrapporre il concetto di comunità obbligata, il legame di classe come una forma d’arte da superare.
Un altro tabù è l’atteggiamento: nella scuola steineriana alleviamo le persone migliori e le proteggiamo il più a lungo possibile dal mondo esterno, per non nuocere loro. Io invece mi sono sempre adoperato per aprire la scuola, ad esempio alle dinamiche della vita economica, e più volte mi è stato rinfacciato di fare una formazione commerciale, di voler creare materia prima per l’economia e altre cose del genere. E tutto ciò veniva motivato da un’antropologia antroposofica. Invece io penso che l’antropologia deve essere anche scienza della civilizzazione, per citare Erhard Fucke. La scuola non si deve sottrarre alla civilizzazione, ma deve muoversi secondo un movimento respiratorio dai luoghi di educazione scolastici a quelli extrascolastici. Ciò è già presente nell’impostazione di molti progetti scolastici in alcune scuole steineriane e un progetto come la Scuola svizzera Rudolf Steiner Jura-Südfuß mostra qualcosa di veramente eccellente.
Secondo la mia visione, tutto il peso fondamentale posto sull’insegnamento dovrebbe essere spostato sull’azione nel mondo che poi viene collegata alle materie. L’istituzione scuola futura raggiungerà questo obiettivo. Nei miei esperimenti personali ho notato quanto sia ricca l’offerta per progetti di apprendimento in cooperativa. Prendo in considerazione sia la pretura più vicina sia le aziende arrivate in città – a parte il fatto che con cooperazioni di questo genere adotteremmo la migliore prevenzione contro gli attacchi delle persone che sostengono che la scuola steineriana sia chiusa, settaria. Nelle aziende che hanno collaborato ai nostri progetti a Schwäbisch Hall adesso, dieci anni dopo, ho incontrato ancora entusiasmo per la passata collaborazione.

Come risponde alle accuse, secondo cui, con il suo approccio lei vorrebbe rendere gli allievi solo più adatti all’economia?
Il mio approccio è molto più profondo. Non si tratta di un semplice motto, come “più pratica”, ma della liberazione dello stesso processo di apprendimento.

Cosa intende esattamente con ciò?
Prendiamo un caso concreto, ad esempio la mia esperienza più attuale di una conferenza. Per scioglierci facciamo insieme un po’ di ginnastica Bothmer. Ci mettiamo in cerchio ed eseguiamo gli esercizi. Io nel fare ciò mi sperimento e faccio delle esperienze interessanti. E, secondo la mia esperienza come moderatore in gruppi di coaching, per me sarebbe normale che insieme riflettessimo su uno di questi esercizi: come abbiamo affrontato le fatiche, come ci siamo sentiti nei panni di coloro che devono imparare, siamo cresciuti con questo oppure ci siamo allontanati ad un certo momento? Nella conferenza niente del genere, solo gli esercizi, fine.
Si dice: “Non bisogna parlare ma fare.”
E all’improvviso mi è stato chiaro: cosa può provare un alunno che ora dopo ora in classe deve fare esercizio dopo esercizio, ma a cui non viene mai domandato come si trova ad imparare? C’è da meravigliarsi se gli allievi si distaccano e si domandano: perché facciamo tutto questo? In quel momento ho sentito l’allievo in me e mi era chiaro che anch’io mi annoierei a morte se alla sesta ora dovesse esserci ancora l’ora di euritmia e nessuno mi chiedesse: cosa ha a che fare con te, come ti sembra? Che capacità hai già acquisito, quali vorresti sviluppare, cosa ti serve per farlo?
Non possiamo discutere nelle conferenze delle grandi leggi dello sviluppo e lasciare da parte la vita concreta di coloro che imparano, vita di cui ogni singolo allievo potrebbe raccontare qualcosa se solo fossimo in grado di porre le giuste domande.
Io all’inizio della settimana entro in questo atrio dello sviluppo chiedendo all’allievo cosa vuole raggiungere nei prossimi giorni, e alla fine della settimana gli chiedo anche se ha raggiunto ciò che si era promesso, che cosa lo ha spinto e che cosa lo ha impedito. Se, ad esempio, si pongono queste domande a venti allievi riguardo a un argomento pur semplicissimo come l’imparare i vocaboli, si ottengono venti risposte diverse.
Questo mi interessa: che aspetto deve avere l’ambiente intorno a te per incentivare il tuo studio, con chi riesci ad imparare meglio, come fai a fare in modo di ricordare poi tutte le parole? Al posto di questo dialogo troppo spesso capita la situazione in cui l’insegnante sta di fronte alla lavagna e spiega la materia. Oppure fa vedere gli esercizi che poi devono tutti rifare. La porta verso il processo di apprendimento del singolo rimane chiusa.

Ma si sente sempre dire che la scuola steineriana ha tanti strumenti pedagogici propri.
Ma lei stessa in parte non li comprende più. Prendiamo ad esempio le cosiddette “feste del mese”: secondo me anche queste sono una sindrome da “cucchiaio da cucina”.
Secondo il mio parere in origine erano pensate come un modo per guardare nell’apprendimento dei compagni. Non da ultimo anche per coltivare, in una scuola senza voti, una relazione alternativa con l’apprendimento e il rendimento. I festival da palcoscenico quasi perfetti che la massa annoiata si vede scorrere davanti non hanno niente a che vedere con l’idea originaria.

Che sarebbe?
Gli allievi dovrebbero sperimentarsi su un percorso dell’apprendimento e incontrare gli altri sul loro percorso di apprendimento in una situazione simile a un laboratorio. Se non vogliamo avere l’astrazione del voto come misura per l’effettivo apprendimento e il rendimento, allora dobbiamo sviluppare un’altra cultura, per incontrare individualmente l’apprendimento e il rendimento dell’altro. Io affermo però che questo non può assolutamente funzionare in una forma collettiva dove a 600 persone vengono presentate dodici rappresentazioni di fila chiaramente senza nessuna spiegazione degli allievi stessi. Ogni alunno ha lo stesso pensiero di fondo: loro non intendono senz’altro me.

E come potrebbe essere fatto diversamente?
Attraverso una cultura dell’apprendimento “a portfolio”, secondo cui l’allievo dialoga con altri allievi sui reciproci processi dell’apprendimento: questa, in assoluto, sarebbe una delle più grandi risorse. “Portfolio” significa saper raccontare la propria storia dell’apprendimento, che non si può scambiare con nessun’altra, ed essere capaci di vedere di essere su un percorso da compiere insieme ad altri. Invece di ciò, genitori più o meno felici anno dopo anno apprendono, durante la festa del mese, la storia della carotina che viene tirata fuori dal terreno in tedesco, inglese e russo. Questo è anche molto bello, ma manca un piano fondamentale a cui viene semplicemente negato l’accesso; e se invece fosse possibile accedervi toglierebbe un peso enorme a tutti.
Per fare un esempio di come potrebbe essere messo in pratica. Epoca di costruzione delle case a Schwäbisch-Hall: il maestro di classe fa costruire case ai bambini della terza, dall’igloo fino al grattacielo, poi organizza una visita dei bambini di seconda, che l’anno successivo faranno la stessa cosa; i bambini della terza decorano l’aula, espongono i loro modelli, si sono preparati. E poi ogni bambino va da un altro e gli esperti della terza stanno di fronte ai principianti – quanti processi iniziano lì – e nascerebbero vere risposte a vere domande!
Le persone dure di comprendonio qui userebbero subito la parola “adatto all’età” e in parecchi direbbero: “Sì ma per la seconda classe questo non va bene, non possono ancora farlo.”
Ma l’individualizzazione non è una questione di età! La parola d’ordine è forme di lavoro adatte ad ogni età: gli allievi della terza fanno qualcosa per la seconda, i maturandi preparano una lezione per la nona e avanti di questo passo, questa per la scuola è una liberazione! Ispirarsi a vicenda.

Nelle scuole steineriane c’è la tendenza degli insegnanti a voler dominare e proteggere gli allievi?

Penso di sì. Una collega di recente si è occupata di un interessante approccio terapeutico, secondo cui i bambini nell’età del gattonamento devono prima disimparare i riflessi neonatali affinché si possa sviluppare il successivo livello motorio; quindi non posso sostare troppo a lungo nello stesso livello perché altrimenti appaiono degli ostacoli per accedere a quello successivo.
Se, ad esempio, dei bambini non riescono a stare seduti tranquillamente, per non parlare del tenere in mano tranquillamente la penna stilografica, può essere che non abbiano disimparato alcuni specifici riflessi neonatali, cosa che viene recuperata nella terapia. In questo senso il musicista e pedagogo Peer Albohm una volta ha detto: “l’imitazione deve essere anche disimparata”.
Tutto questo calza proprio con la moltitudine di critiche che da fuori arrivano alla scuola steineriana: qui troppe cose sono state stabilite da una persona sola e troppo è stato fatto collettivamente. In effetti nella scuola media, ma anche in quella superiore, si recita molto collettivamente e si studia quasi esclusivamente in modo collettivo. Qui riportiamo esattamente l’apprendimento per imitazione.

Che dopo ottant’anni venga messo alla prova un approccio nuovo non è una vergogna. Ma un’istituzione come l’Associazione delle Libere Scuole Steineriane non dovrebbe iniziare con maggior forza a mettere in campo dei processi di riforma attivi senza nascondersi dietro alla frase: le scuole sono autonome e tutto dipende dal singolo?
Anche con molta buona volontà non riesco proprio a immaginare l’Associazione delle scuole fare una cosa del genere. Ma ciò di cui abbiamo bisogno sarebbe veramente una postazione centrale di sviluppo, come di recente mi ha proposto il collega Klaus-Peter Freytag.

Nella scuola il singolo impegnato non ha alcuna chance considerando la pigrizia della totalità, proprio sotto il segno di una amministrazione non professionale. Abbiamo bisogno di più responsabilità processuale. Ma questo non basterebbe.
Abbiamo bisogno di una considerazione positiva del potere con regole centralizzate, in contrapposizione con il potere che rimane sconosciuto, che viene ad esempio esercitato durante una conferenza attraverso una gestione del dialogo non qualificata. Abbiamo bisogno di una guida dove oggi lo sviluppo della scuola scompare nei buchi di gestione come le navi nel triangolo delle Bermuda. Prima abbiamo bisogno di diventare noi stessi abili ad imparare e di trovare le vie per affrontare di nuovo le domande come quelle proposte qui!
Se si volesse mettere all’ordine del giorno di una conferenza ciò che io all’inizio ho descritto in qualche esempio direi: “Risparmiate il vostro tempo! Non serve a niente. Non può servire…” Dobbiamo uscire dalla comodità, non possiamo più opporci ai nuovi metodi e alle nuove tecniche. Per poi continuare a lavorare male nella pratica della gestione di un’istituzione con la pretesa di agire conformi alla vita.
Io credo quindi che un impulso di innovazione deve essere portato veramente in modo consapevole e affrontato con strumenti completamente nuovi. Forse bisognerebbe fondare anche una nuova scuola steineriana che lavori fin dall’inizio con nuove strutture e nuovi metodi. Si costruisce molto più facilmente un nuovo motore invece di modificarne uno in piena attività.
Le impostazioni per farlo esistono già.

(tratto da Info3, luglio-agosto 2007)

Da ArteMedica n.9

Ruediger Iwan è stato insegnante di scuola steineriana finché gli è diventato troppo stretto il mondo dei quadernoni delle epoche a volte troppo colorati, delle conferenze spesso estenuanti e dei tanti pigri compromessi sulle note e sui compiti. Rüdiger Iwan con un piede è comunque rimasto nel modello migliore di scuola, ma accanto ha fondato il suo studio di progetto per la scuola “Perpetuum Novile”. Si è aperto a nuovi modelli di formazione e qualificazione, ha cercato la cooperazione con altri riformatori della scuola e con la formazione aziendale di grossi gruppi industriali.
Chi lo incontra viene a contatto con una fantasia apparentemente instancabile e con la gioia per l'apprendimento in azione. Non bisogna provare nessuno stupore, quindi, se proprio a lui non bastano più solo forme arrotondate e idilli musicali. Questo rivoluzionario del metodo steineriano ha trovato una grande disponibilità presso la casa editrice Rowohlt Verlag, la stessa casa editrice che ha reso famosa la scuola steineriana come modello di riforma con il classico “Angstfrei lernen” (Imparare senza paura) di Christoph Lindenberg.
Appena vent'anni dopo il bilancio di Rüdiger Iwan suona così: la scuola steineriana è diventata un caso da riformare. Nel suo libro Die neue Waldorfschule (La nuova scuola steineriana), che è stato pubblicato in lingua tedesca nel luglio dello scorso anno, egli vuole rendere di nuovo libera la pedagogia steineriana nelle sue idee fondamentali, che sono state dimenticate molto spesso nelle abitudini della quotidianità della scuola steineriana esistente realmente. Un dialogo con un appassionato pedagogo steineriano.