Il paradosso della comunità

In questo articolo, tratto da Das Goetheanum, Agnes Hammerstein propone alcune riflessioni sulla difficoltà di portare avanti l’impulso di vivere e lavorare in comunità tipico di molte realtà antroposofiche.

Vivere e lavorare in una comunità è un impulso fondamentale di molte iniziative antroposofiche. Tuttavia ciò che idealmente è seducente, diventa spesso difficilmente applicabile nella realtà e logora anche le forze migliori, rivelandosi spesso irrealizzabile. Diventa quindi una questione primaria ed esistenziale essere in grado di formare delle comunità in cui la vita diventi armoniosa e feconda.

Sono sempre esistiti mezzi per curare la vita delle comunità: i pasti in comune, le feste, gli scopi comuni, che favoriscono il sorgere di sentimenti di unione. Soprattutto i giovani hanno una particolare sensibilità per la comunità, poiché essa dà loro forza e sicurezza. Questa sensibilità è però in contrasto con i desideri sempre crescenti di autonomia che caratterizzano i giovani di oggi: il ricorso ai metodi del passato non è più sufficiente. Si tratta di mantenere in equilibrio la tensione fra la finalità superiore costituita dalla comunità e gli impulsi, del tutto indipendenti, di ogni singolo membro.
È compito della comunità unire, lasciando a ciascuno autonomia e libertà, ma al contempo fornire protezione e sostegno, senza causare dipendenza o passività. E viceversa: l’individuo dovrebbe servire e essere utile alla comunità in quanto egli agisce in assoluta libertà e indipendenza a partire dalla propria interiorità.
Questa è una enorme e fondamentale contraddizione della vita odierna che va risolta. Ma come è possibile realizzare un obiettivo così fondamentalmente contraddittorio, se è difficile perfino unificarlo nei nostri pensieri? Abbiamo dinnanzi a noi il compito posto da quel paradosso: immaginare, pensare un connubio fra i principi che stanno alla base dell’individualità e quelli della comunità, coltivando l’intuizione che una tale unione possa diventare realtà nella nostra coscienza. Ciò diventa possibile grazie alla meditazione.

Rudolf Steiner diede queste parole all’artista Edith Marion come dedica di un libro, quale motto dell’etica sociale. Sono parole che esprimono alla perfezione la suddetta contraddizione nel suo doppio volto: da una parte sorge la tensione fra la comunità e la potenza del singolo, dall’altra sorge una contraddizione là dove le due componenti evolvono insieme; la comunità si forma proprio nell’anima del singolo e la forza del singolo si dispiega attraverso la comunità.

Heilsam ist nur, wenn

Im Spiegel der Menschenseele

Sich bildet die ganze Gemeinschaft;

Und in der Gemeinschaft lebet;

Der Einzelseelekraft.

Benefico è solo quando

l’anima dell’uomo

riflette l’immagine

della comunità tutta.

E vive nella comunità

la forza della singola anima

Il lago nel bosco è uno specchio
Come si presenta una comunità che si rispecchia nell’anima del singolo? È un processo che possiamo prendere in mano coscientemente? E se così fosse, come avviene? Come possiamo fare sì che nella meditazione la nostra anima diventi uno specchio?
Attraverso un’immagine possiamo chiarire le seguenti domande: in che modo qualcosa si trasforma in specchio? Cosa ci mostra uno specchio?
Davanti a me si stende un laghetto in mezzo a un bosco; è una giornata bella e chiara, nel lago si rispecchiano il cielo azzurro, le nubi, gli alberi. L’acqua diventa trasparente solo se mi avvicino alla riva, vedo la ghiaia.
Il lago è uno specchio, la superficie è tranquilla, nulla si muove. Ciò che è sotto l’acqua si ritira completamente, resta visibile solo ciò che sta sopra. Il mondo circostante si rispecchia esattamente come un’immagine rovesciata, portata dallo spazio su un’area piatta. Nello specchio si possono anche vedere i movimenti degli alberi. Il lago, dimentico di sé, si mette a disposizione diventando quadro del mondo che vi si rispecchia.
Fa parte dello specchio anche il lato oscuro, il nero che si può intravedere sul dietro, la densa profondità dell’acqua. Senza oscurità, nessuna immagine potrebbe rispecchiarsi.
Se l’anima deve diventare uno specchio occorre per prima cosa fare alzare le onde, e ciò avviene quando, in una situazione di apertura senza un chiaro indirizzo, vengono lasciati liberi impulsi di volontà. Lasciare sorgere una tale oscurità non è cosa facile, poiché sempre di nuovo si innalzano, come in un baleno, pensieri e impulsi volitivi che durano fin quando la componente senza forma né indirizzo li ha inghiottiti.
La superficie piatta e la parte oscura che si diffonde da sotto è un’immagine che permette di percepire come si forma una comunità. Quando ora penso alla comunità emergono a tutta prima immagini di singole persone. Esse hanno degli orientamenti e dei moti molto accentuati, sono attive con grande duttilità. Esse sono differenziate e vivaci, ma non si integrano in una superficie.
In un primo tempo il mio compito quale meditante si limita a mantenere con grande energia il quadro entro un confine ben definito: la componente oscura priva di volontà e la calma superficie senza alcuna emozione. Poi un appello, un’esortazione alle persone dell’immagine di lasciare andare.
 La comunità si forma da sé, non sono io a formarla. Non creo alcun legame intorno ai singoli, non esercito alcun atto volitivo per cambiare o avvicinare le persone fra di loro.
Ciò richiede molta pazienza, ma occorre aspettare che tutti arrivino liberamente.

Emerge una superficie nuova
Nella meditazione continuo a impegnare tutte le mie forze a immaginare il quadro con i suoi confini ben delimitati, a percepire una calma oggettiva e non coinvolta, l’oscurità della volontà che lascia liberi, che lascia andare e crea spazio. E quando le condizioni dell’inquadratura sono in accordo e vi è un’apertura che permette tutto, allora posso percepire la luce.
Le persone si muovono nella luce, si mostrano con intensità differenziata; appare una rete di legami che si modifica di continuo. Sopraggiunge un cambiamento radicale: ciò che nella quotidianità è manifesto, attivo, capace, diventa spesso leggero e passeggero; e quello che era appena percettibile e che sembrava persino fastidioso, può rivelarsi l’epicentro, la componente più importante.
Si inserisce in modo fluttuante, quale forza equilibratrice, e gradualmente dal mosaico formato dalle più svariate personalità sorge un dipinto con nuovi gesti e indirizzi che fanno emergere un’insolita superficie simile a quella di un quadro impressionista, composto da molteplici macchie cromatiche.
Questa è una superficie nuova. Prima non era così, è una sorpresa, poiché non me la sono immaginata così. Ha in sé la capacità di rinnovarsi ogni volta.
È un’autentica grazia se una tale superficie emerge anche solo per un attimo: essa può venire percepita, ma non può essere voluta. Anche se occorressero centinaia di tentativi prima di riuscire, da una simile esperienza deriva un indicibile senso di libertà.
È sorto uno spazio senza né modificare, né adeguare l’immagine delle singole individualità, e tuttavia quest’area è un’autentica esperienza. Le diversificazioni dei singoli sono state salvate e ciò nonostante si è formata un’area comune.
Una tale esperienza meditativa può far scaturire la fiducia che anche nella vita reale il paradosso che esiste fra vita comunitaria e individuale possa trovare un’armonizzazione. La fiducia porta nella vita sociale un effetto benefico e risanatore. La fiducia dà pure il coraggio di inserirsi integralmente con la propria forza primigenia nella comunità, così come viene indicato dalla seconda parte del motto sociale di Rudolf Steiner.

Da ArteMedica n.7