di Anna Chiello
In questo articolo presentiamo alcune esperienze che, pur non essendo tutte strettamente legate alla pedagogia curativa e alla socioterapia steineriane, ci mostrano come non si possa prescindere dall’insegnamento di Steiner.
L’approccio antroposofico nella Cooperazione europea
In Europa ci sono circa 37 milioni di persone con handicap più o meno “gravi”. Per promuovere pari opportunità e diritti umani delle persone con handicap, nel 1997 è stato costituito in Europa il Forum delle Disabilità EDF (European Disability Forum), che vede impegnate numerose associazioni professionali e civili.
In particolare ci interessa evidenziare il forte impegno dell’ECCE (European Cooperation in Anthroposophical Curative Education and Social Therapy), presente nella commissione permanente dell’EDF in rappresentanza delle persone con elevato grado di dipendenza e incapaci di rappresentarsi.
L’ECCE, Organizzazione Non Governativa fondata nel 1992 nei Paesi Bassi, rappresenta attualmente circa quattrocento organizzazioni sul territorio europeo, che lavorano su progetti di sostegno allo studio e al lavoro, supporto alle famiglie e al mantenimento della casa, terapie curative ecc. basandosi sul principio che le persone con bisogni speciali hanno:
■ il diritto di scegliere come vivere la propria vita in un ambiente assistito che favorisca e sostenga lo sviluppo e la comunicazione personali;
■ il diritto a condizioni di vita, di istruzione, di lavoro e di terapia adatte alle proprie potenzialità umane;
■ il diritto a partecipare in maniera dignitosa alla vita in società, secondo le proprie potenzialità umane.

Le comunità Camphill
“È possibile che i portatori di handicap mentale portino il germe della guarigionenella vita sociale odierna. Per questo ci vuole quel tanto di immaginazione da considerarli così indispensabili quanto riteniamo di esserlo noi. Con il loro essere ci rivelano qualcosa che è più percepibile in loro che nelle persone cosiddette normali. Questa cosa è il carattere dell’universalmente umano. Quell’elemento ‘infantile’, che traspare nei veri artisti, sussiste anche in ciascuno di loro. Ecco, dunque, il germe di cui abbiamo bisogno al giorno d’oggi. Visto sotto questo profilo il portatore di handicap mentale non è affatto un essere senza valore. Egli appare un dono per la nostra civilizzazione. Lasciamoli agire. Lasciomoli esprimere per ricevere il loro amore, come loro ricevono il nostro…”
Queste parole del dottor Karl König, fondatore del Movimento Camphill, esprimono in tutta la loro semplicità la filosofia dell’Associazione delle Comunità Camphill, nate nel 1940 in Scozia con lo scopo di accogliere persone con particolari disabilità, ispirandosi agli ideali steineriani.
Oggi vi sono oltre novanta comunità Camphill sparse in Europa, Africa e America, ognuna con delle caratteristiche proprie ma tutte fondate sul principio che ogni individuo deve partecipare alla comunità con tutto il suo potenziale di dignità e valore spirituale.
Vi sono comunità residenziali per giovani studenti, dove sono ospitati ragazzi dai tre ai diciotto anni; comunità di avviamento al lavoro per giovani fino ai 25 anni; comunità di adulti che ospitano persone che lavorano in parte all’interno della comunità stessa e in parte in strutture esterne.
Le scuole offrono un approccio olistico rivolto alla cura, all’educazione e al trattamento medico dei ragazzi. I programmi scolastici sono integrati con attività pratiche e artistiche, terapie mediche ed economia domestica, secondo i programmi Waldorf sviluppati da Steiner.
Nelle comunità vivono persone con speciali bisogni e lavoratori volontari con le rispettive famiglie; tutti lavorano e vivono insieme in strutture familiari o in sistemazioni indipendenti. Ogni singola persona contribuisce alla vita della comunità secondo le proprie capacità (gestione della casa, insegnamento, amministrazione, terapie, giardinaggio sono alcune delle attività possibili), e tutti prendono parte alle attività culturali e alla vita sociale della comunità.
Trattandosi di comunità caritatevoli basate sulla partecipazione volontaria, il loro sostentamento avviene tramite raccolta fondi e donazioni private e pubbliche, e, nel caso delle comunità adulte, attraverso la vendita di piccoli lavori artigianali.
Partecipare attraverso cinema e comunicazione
(Intervista con Umberto Lucarelli, collaboratore di Anffas, Orizzonti oltre l’handicap, Volontari il cavallo bianco, Arte teatro e handicap, Ledha.)
Umberto Lucarelli, scrittore e regista, tiene ormai da alcuni anni un corso di Cinema e Comunicazione rivolto a gruppi con persone disabili e non. Gli abbiamo posto alcune domande sul suo lavoro.
Come nasce l’idea di lavorare con i disabili attraverso la forma artistica?
Ho iniziato a lavorare con adolescenti cosiddetti “disabili intellettivi e relazionali” vent’anni fa e il mio approccio è stato subito di tipo artistico, avendo sviluppato un rapporto con la scrittura, il teatro, il cinema. Contrariamente a quanto si possa immaginare, nella realtà scolastica si tende a utilizzare l’arte in maniera “ricreativa” oppure, quando si ha difficoltà nella relazione con ragazzi difficili, ci si indirizza verso un laboratorio espressivo.
Intende dire che l’arte viene normalmente utilizzata come mezzo sostitutivo, quando le altre forme non funzionano?
Sì. La valenza dell’arte è di tipo sostitutivo; come pure nel linguaggio convenzionale – per quanto riguarda le persone con disabilità – si è passati all’utilizzo di vari appellativi via via meno forti fino al battesimo di “diversamente abile” che è un tentativo di far emergere le “abilità residue” o “spendibili”, per usare termini moderni. Tutto deve essere in qualche maniera produttivo – e questo è sottolineato dal linguaggio – altrimenti non possiede alcun valore.
Invece lei non la pensa così…
No. Effettivamente non mi piace questa centralità della “produttività”. Credo, invece, che il valore di una persona non vada misurato in base alle “abilità” ma stia tutto nella sua esistenza. Grazie all’incontro con la pedagogia curativa di Rudolf Steiner, al pensiero di Karl König e all’antroposofia in generale ho potuto cogliere la riflessione sul valore e sull’importanza che questi esseri (i cosiddetti disabili intellettivi) hanno nello sviluppo e nell’elevazione spirituale della società umana.
Torniamo al corso di cinema.
È proprio sul tema di quanto ho appena detto che da alcuni anni conduco questo Corso di cinema e comunicazione rivolto a un gruppo di allievi con disabilità (una decina, così come gli artisti che si alternano) e persone interessate a questa esperienza.
Quale è lo scopo principale del corso?
L’incontro con attori e altri artisti in cui ciascuno diviene maestro dell’altro. Ognuno ha qualcosa da imparare. Abbiamo realizzato film e spot, ma anche libri e tesi di laurea. Questa modalità di intervento, in cui si crede nella forza dell’arte e nell’apertura, sembra essere molto efficace e sorprendente.
Ci può raccontare un episodio particolarmente rivelatore?
Monica era una ragazzina con la sindrome di Down che frequentava il centro di formazione professionale dell’Anffas di Milano un po’ di anni fa. Era considerata, ai tempi, una persona difficilissima con cui quasi nessuno voleva stare. Non faceva nulla, rifiutava il contatto e la comunicazione, rimaneva seduta sul pavimento del corridoio o nell’atrio della scuola con le gambe incrociate e le cuffie del registratore nelle orecchie. Se qualcuno tentava di coinvolgerla si agitava tantissimo, urinava e poteva arrivare anche a manifestare crisi epilettiche. Questa ragazza mi ha ispirato un breve romanzo che poi si è trasformato in un film: Pavimento a mattonella, interpretato da attori e da ragazzi con disabilità. La cosa più straordinaria è stata quando ho proposto alla madre di Monica e quindi alla ragazza stessa l’interpretazione nel ruolo della protagonista del film. Monica, che nel film è diventata Sonia, si è sentita completamente a suo agio ripercorrendo la sua storia all’interno della scuola relazionandosi – a modo suo – con gli attori e le maestranze. Dopo la realizzazione del film la ragazza ha continuato a frequentare il corso di cinema e comunicazione e ha manifestato una certa apertura verso gli altri.
Ha dei sogni nel cassetto?
Vorrei considerare questa esperienza come il primo passo verso la realizzazione di una Scuola Artistica che veda le persone disabili come maestri dei cosiddetti normodotati, i quali si iscriveranno e pagheranno i disabili per apprendere. Una scuola che sia in grado di trasmettere il messaggio sul valore che le persone disabili (o diversamente valide) possiedono e sul loro contributo di civilizzazione e guarigione di una società fortemente malata.

Guarire con gli animali
Dopo anni vissuti in California, Cristiana Tua si è stabilita a Roppolo, sulle colline del lago di Viverone, dove ha realizzato insieme al figlio Mark, il suo progetto Vivere la Fattoria, uno spazio ampio, aperto, con animali in libertà dove si sperimenta quotidianamente lo stretto rapporto di fiducia e scambio fra uomo e natura. L’invito proposto dal volantino di presentazione racconta fin da subito l’intento di Cristiana: “il rispetto, la protezione e la cura degli animali e dell’ambiente naturale sono indispensabili ai nostri amici, compagni di vita… e al nostro benessere”.
Oltre ai percorsi didattici, all’equitazione e alle passeggiate, Vivere la Fattoria sperimenta regolarmente la terapia con gli animali per la riabilitazione fisica e per i disturbi mentali. Per conoscere meglio la sua esperienza abbiamo rivolto qualche domanda direttamente alla signora Cristiana.
Come è nata l’idea di una fattoria? E, soprattutto, com’è nata l’idea di condividere gli spazi naturali e gli animali con il mondo esterno?
L’idea è nata per condividere esperienze di vita e amore per natura e animali, mettendo a disposizione la fattoria e i terreni circostanti, che erano della mia famiglia da secoli – la struttura risale al XVI-XVII secolo. Con l’appoggio di mio figlio Mark e il nostro entusiasmo siamo partiti con questo progetto, oserei dire “naturalistico-spirituale”.
Quanti e quali animali ci sono nella fattoria? E chi se ne prende cura?
Gli animali sono diversi: naturalmente quattro cani (di cui tre trovatelli), due gatti (trovatelli), dodici cavalli, il pony “Gigi”, il maialino vietnamita “Francy”, due conigli, quattro anatre bianche mute, due gallinelle americane e un gallo, le due caprette tibetane “Belinda” e “Goat”. Naturalmente ci sono gli animali selvatici: uccelli di ogni tipo, il falco, i corvi, la poiana, ricci, scoiattoli, ghiri e… le volpi che vivono intorno a noi. Mark e io ci prendiamo cura personalmente di tutti gli animali, con l’aiuto, ogni tanto, di amici anche loro appassionati a questa vita.
Perché l’educazione dei bambini, attraverso le attività didattiche, al centro dei vostri programmi?
Perché ci siamo accorti di quanto i bambini, e non solo loro, abbiano perso il contatto con il regno vegetale e animale, e attraverso la visita e le attività didattiche della Fattoria imparano a conoscerli “dal vivo” e non solo in modo “virtuale”.
Da cosa nasce l’impulso a utilizzare gli animali a scopo terapeutico?
Nasce da un credo personale, essendo sempre vissuta a stretto contatto con animali e natura e, inoltre, avendo fatto del volontariato in questo campo, in California.
Come funzionano le terapie? E come reagiscono uomini e animali? Si crea veramente un rapporto diretto fra i due soggetti?
Le terapie si basano su un naturale incontro diretto fra due esseri, uomo e animale, liberi tra la natura, che entrano in contatto e si scelgono a vicenda. La reazione varia, ma senz’altro c’è questo stupore nel riconoscere quanto gli animali hanno da darci, soprattutto il loro amore incondizionato; inoltre gli animali “sanno tutto di noi” (grazie al loro sesto senso ben sviluppato): dalla gioia al dolore, alla tristezza, alla pace.
I benefici della terapia con gli animali sono visibili a tutti o si realizzano solo piccoli cambiamenti visibili a famigliari e terapeuti?
I benefici sono, a seconda dei soggetti, visibili subito o nel tempo, grazie al costante rapporto uomo-animale. Ho notato importanti miglioramenti e ben visibili con l’autismo, e ancor di più con anoressia bulimia.
Esiste un animale adatto ad aiutare in una determinata patologia, oppure tutti gli animali sono utili a tutte le patologie?
Tutti gli animali sono utili per la terapia: tutti noi ne avremmo bisogno! Certi animali sono più adatti per alcuni soggetti.
Lei si riferisce all’antroposofia e alle teorie di Rudolf Steiner rispetto alla pedagogia curativa e al mondo spirituale? Oppure le sue applicazioni derivano da una personale esperienza e da una sua personale e profonda convinzione?
Ho seguito conferenze sull’arte medica steineriana, ho approfondito la conoscenza delle terapie con specifiche letture e ho conosciuto persone con una bellissima spiritualità e dedicate al loro lavoro antroposofico. E posso dire che sì, per molte cose sono sullo stesso filo conduttore, ma molto viene da dentro di me per una mia personale esperienza spirituale e di vita.

Un’associazione storica in cammino
L’Associazione Loïc Francis Lee per la pedagogia curativa e socioterapia steineriana ai fini della promozione umana dei disabili mentali è costituita da genitori e sostenitori volontariamente impegnati ad assicurare ad adolescenti e giovani portatori di handicap un presente e un futuro consoni alla loro dignità umana, promuovendo iniziative atte a rendere possibile lo sviluppo della loro personalità e a favorirne l’integrazione sociale ed economica.
Si tratta di un’associazione con una lunga storia, che fino ad oggi ha visto articolarsi la sua attività in diverse iniziative nella campagna romana: da un lato la scuola-laboratorio per gli adolescenti e dall’altro la casa-famiglia e il lavoro per gli adulti.
Al momento di rispondere alle nostre domande, però, la signora Rita Di Tanno, coordinatrice responsabile delle attività dell’associazione, ci ha comunicato che l’associazione è di fronte a un profondo cambiamento che vede tutti impegnati nel disegnare un nuovo futuro. Si tratta di trasformare l’esperienza del centro diurno e della casa-famiglia in un progetto più completo di comunità, nella quale convivere e condividere tutte le esperienze del quotidiano, privato e sociale. Questo è l’obiettivo del progetto “Borgo Sajano” per la creazione di una comunità-villaggio, nella provincia di Viterbo.
“Il progetto per la realizzazione di un villaggio è già partito e la strada sarà lunga – dice la signora Rita – perché non solo abbiamo dovuto e dobbiamo confrontarci con le difficoltà oggettive (lungaggini burocratiche, realizzazione delle infrastrutture, raccolta fondi…), ma vogliamo, come è nostra tradizione, compiere un percorso di convincimento etico personale e comunitario che ci porti alla costituzione di una realtà di cui ognuno possa sentirsi profondamente partecipe. Un luogo in cui mettere le proprie radici insieme agli altri”. A questo punto, insieme al desiderio di comunicare e condividere, è sembrato scorgere dalla voce di Rita, una indecisione “scaramantica” nel voler entrare più in dettaglio. Quindi la lasciamo al suo importante impegno, con l’augurio che il lavoro dell’Associazione Loïc Francis Lee continui a dare i migliori frutti nel nuovo progetto, così come è stato in quelli precedenti. E speriamo che presto possa raccontarci più nel dettaglio questa nuova esperienza.
Da ArteMedica n. 6, 2007